America Centrale, Marzo 1519
Ixtili era felice mentre saliva sugli scalini della grande piramide, insieme a un piccolo gruppo di persone. Nello stesso momento, altri uomini, posti proprio ai bordi della scalinata, guardavano quel gruppo, incuriositi. Tutti si chiedevano cosa essi avessero visto per essere onorati in quel modo. Nessuno lo sapeva bene e le voci che si susseguivano erano numerose. Arrivato in cima, il primo degli uomini del piccolo gruppo fu fatto stendere su un altare, da quattro sacerdoti. Un altro di quelli, che aveva tutta l’aria di essere più importante, si avvicinò con sguardo severo. L’emozione era alle stelle, il rito stava per compiersi. Il sacerdote prese un coltello di ossidiana e, in maniera solennemente ma con un gesto fulmineo, lo piantò nel ventre dell’uomo, che reagì urlando e scuotendosi. Tenuto fermo dai sacerdoti, quello più importante continuò la sua opera di taglio e dopo un po’, quando ormai l’uomo aveva finito di urlare, estrasse da quel corpo qualcosa, qualcosa che mostrò a tutto il pubblico, che rimase come estasiato: un cuore, ancora pulsante. Quell’uomo, sacrificandosi, era asceso al cielo. Aveva raggiunto gli dei che aveva visto. Ixtili non vedeva l’ora che arrivasse il suo turno.
«Riverito oratore, pensa che i sacrifici basteranno?»
Un uomo, dalla terrazza della sua sfarzosa reggia poco lontana, guardava la piramide.
«Sono sempre bastati, sacerdote massimo.»
«A mio modesto parere questa situazione è diversa. Con tutto il rispetto, riverito oratore, penso che sia necessario interpellare il dio.»
«Non è affatto una cattiva idea. Ma voglio essere presente.»
«Sia fatta la sua volontà, riverito oratore. La prego di seguirmi.»
I due uomini, circondati da una schiera di guardie, abbandonarono la reggia, camminando nella strada principale della città di Tenochtitlan, dove le costruzioni di pietra sembravano perdersi nell’orizzonte, alternandosi a imponenti piramidi a gradoni. Raggiunsero ben presto una di quelle e vi salirono. Sulla sua sommità si trovava una stanza spoglia, dove immediatamente i due si prostrarono.
«Divino Quetzalcoatl, ti chiediamo udienza.»
Ci fu un lungo silenzio.
«Alzatevi.» disse infine una voce squillante. Obbedendo a quell'ordine i due uomini poterono vedere chi avevano davanti: un bambino, dalla carnagione incredibilmente chiara, vestito solo di una tunica bianca. La sua pelle e i suoi abiti contrastavano aspramente da quelli dei due, che avevano una carnagione molto scura e indossavano piume e foglie, con numerosi dettagli in oro e molte pitture sul corpo.ù
«Cosa vi porta da me?»
«I suoi simili sono finalmente giunti, divino.» disse il sacerdote.
«Dunque?»
«Potente Quetzalcoatl, dio del Serpente e del Vento, conosciamo le profezie.» disse l’altro uomo «ma io voglio sapere le vostre vere intenzioni. Le scritture dicono che vi vogliate riprendere il trono, ma voi il trono lo avete sempre avuto. Non vi abbiamo mai smesso di adorare, divino. Mille e mille sacrifici umani sono stati rivolti a voi, di continuo, anche in questo momento.»
Ci fu un nuovo lungo silenzio.
«Dio supremo, ti supplico, parlaci. Centinaia di anni fa avete solcato i cieli superiori per insegnarci le scienze e le arti. Vogliamo di nuovo essere un tutt’uno con voi, divini esseri dalle bianche braccia.»
Stavolta, dopo una breve pausa, il dio tornò a parlare.
«Quello che voi umani non capite è che l’intera vostra vita, l’intera vostra esistenza, non è altro che un esperimento. Un susseguirsi di esperimenti. I miei simili vengono a riprendersi il mio lavoro, il mio retaggio. La mia eredità.»
Ore dopo, l’uomo che tutti chiamavano “riverito oratore” era di nuovo nella sua reggia. Le colonne d’oro si susseguivano una dopo l’altra e sul pavimento erano riverse un’infinità di pietre preziose, mentre un po’ ovunque si trovavano dei giacigli con delle meravigliose donne che lo aspettavano. Lui, però, sembrava disinteressato a tutto quel lusso e raggiunse velocemente il sacerdote, che lo aspettava su un terrazzo che dava sulla città.
«Ho visto qualcosa, nel tuo sguardo, quando eravamo a cospetto del dio. Ho ragione, sacerdote? Hai capito le sue misteriose parole?»
«Sì, riverito oratore. Ho ragione di credere che gli dei siano adirati per qualcosa in nostro possesso, di loro appartenenza.»
«Ho capito di cosa stai parlando: la reliquia del Serpente. È quella l’eredità di cui il dio parlava.»
«Sì. Dobbiamo riconsegnarla.»
«Va bene, sarà fatto. Bandisci supreme celebrazioni e portala da loro.»
Il sacerdote annuì e fece per andarsene, ma si girò quasi all’improvviso.
«Lei non viene, riverito oratore? Se si ricorda, hanno chiesto di lei. Più volte.»
«No. Non posso abbandonare Tenochtitlan.»
«Va bene. Sia fatta la sua volontà, riverito oratore.»
Il giorno dopo, una grande festa accompagnò un maestoso corteo mentre esso si dirigeva verso l’esterno della città. Ogni componente di quella delegazione era felice: era trapelata la notizia che quella fosse una missione divina e che i partecipanti avrebbero visto, con i loro occhi, gli dei di cui tutte le scritture parlavano. Il morale degli uomini era alto, mentre le ore passavano e, infine, dalla foresta emersero le costruzioni di un’altra città: Cholula.
Fu un po’ all’improvviso che la delegazione li vide.
Esseri strani, spesso fatti interamente di un metallo chiaramente plasmato da un’entità divina.
Probabilmente automi senza un’anima. Alcuni di quelli avevano corpi che non sembravano in alcun modo simili a quelli di un essere umano, avendo forme strane e con due teste dalle quali provenivano rumori orribili. Sembravano creature infernali: subito, nel corteo, si sparse una forte preoccupazione. Gli uomini si fermarono, facendo avanzare verso quegli strani esseri solamente il sacerdote massimo e pochi altri che, appena arrivarono vicini ad essi, si prostrarono velocemente. Uno di quegli esseri, quello che appariva più importante, fece loro cenno di alzarsi. Vicino a quello ce n’era un altro, che però non era di metallo come tutti, ma, probabilmente privo di volto, indossava un mantello di un materiale sconosciuto che lo copriva interamente. Iniziarono a parlare, in una lingua divina, melodica e armoniosa come una dolce canzone. Il sacerdote porse al dio più importante qualcosa. Una spada luminosa. Il dio la prese e l’analizzò. All’improvviso, la terrà sembrò tremare e delle piccole pietre sembrarono alzarsi in cielo. I tagli di quella spada, costituiti da due linee luminose, ondeggiarono: il Serpente si stava risvegliando. Il dio, soddisfatto, la piantò in terra, guardando il sacerdote. Tornò a parlare, con quella sua voce melodiosa, che però ben presto fece rabbrividire qualcuno, del corredo, che la comprendeva.
«Grazie, sarà un bel regalo per il nostro re. Ma non è questo quello che cercavo. Io cercavo il vostro imperatore. Dovevo dargli un messaggio, ma a questo punto poco importa. Lo darò a voi.»
Continuò subito, in maniera trionfale.
«In nome di Dio, di nostro Signore Gesù Cristo e della Beata Vergine Maria, io, Hernán Cortés, dichiaro queste terre sotto il dominio del loro fedele servitore Re Carlo, sovrano di Spagna, imperatore dei Romani, Re d’Italia e Arciduca d’Austria. Possa, sul suo magnifico impero, mai tramontare il Sole.»
Afferrando saldamente la spada, si girò e fece per andarsene.
«Comandante, che ne facciamo di questi infedeli?» lo fermò l’uomo incappucciato, dal cui mantello si riuscì a vedere una strana piccola croce d’oro.
«Uccideteli, frate Geronimo. Uccideteli tutti.»
Nota Storica: il “riverito oratore” (“tlatoani”, in lingua azteca) è Montezuma II, l’imperatore degli Aztechi quando arrivarono i Conquistadores. Come scritto nel racconto, Cortés chiese più volte di incontrarlo, ma ciò gli fu concesso solo quando, nel 1521, marciò con i suoi uomini nella capitale Tenochtitlan, che distrusse qualche anno dopo e dalle cui ceneri nascerà la moderna Città del Messico. È da notare che il contingente dei conquistadores di Cortés fosse esiguo (le unità di cavalleria contavano solo 15 cavalli), ma gli aztechi erano totalmente impreparati alla tecnologia degli europei, anche quella che ci può sembrare più banale (le strane creature descritte nel racconto altro non sono che uomini a cavallo, che gli Aztechi non riuscivano a distinguere e pensavano essere un'unica creature). La spedizione di Cortés inoltre era iniziata sotto il controllo del governatore di Cuba ma, in un atto di “ammutinamento”, il conquistadores si mise al diretto servizio di re Carlo (Carlo V d’Asburgo, da non confondere il suo titolo di “imperatore dei Romani” con quello degli imperatori dell’antica Roma: tale titolo onorifico era riservato all’imperatore del Sacro Romano Impero), scrivendogli varie lettere che spiegano le sue ragioni. Questo gli varrà la nomina di Governatore delle terre conquistate. Cortés, nonostante i notevoli regali degli aztechi e anzi, spinto dalle immense ricchezze che possedevano, continuerà la facile conquista dei loro territori, tentando di convertire la maggior parte dei nativi al cristianesimo, ma non mancherà di sterminarli, come successo nell’eccidio di Cholula.
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